La persistenza delle immagini nella memoria collettiva ha sempre più breve durata. Oggi tutto ciò che è visivo si produce facilmente e altrettanto facilmente si consuma. Pur restando un fenomeno cruciale per il nostro tempo, il digitale ha sostituito l’unicità del documento e del ricordo con la fascinazione dell’usa e getta e dello sharing ad altissima velocità e densità. Nel 2000, le fotocamere digitali vendute erano state dieci milioni. Nel 2010 oltre 140 milioni. Dal 2007, anno di nascita dello smartphone, la fotografia ha subito il suo definitivo mutamento estetico ed etimologico perché, con l’avvento delle camere integrate nei devices, è mutato non solo il linguaggio, ma soprattutto la fruizione del mezzo fotografico. Viviamo la sfrenata corsa alla tecnologia più avanzata, al pixel, all’uso alternativo del prodotto “fotocamera”, alle quasi infinite possibilità di ritocco on camera e dei software di post-produzione integrati. I nativi di Instagram, Snapchat, Facebook producono quotidianamente bilioni di scatti che invadono il web e finiscono per sostituirsi al lavoro di professionisti certificati, mettendo a dura prova il valore dell’autorialità, nonché della verità dell’immagine fotografica. In questo clima, se è vero che sono scomparsi i grandi nomi dell’istantanea, è altrettanto vero che musei, gallerie, fiere e festival accolgono la fotografia come mai prima nella storia. In quasi due secoli di vita, da quell’oramai lontano compleanno siglato da Niepce nel 1826, la fotografia ha dovuto lottare per acquisire un posto di rilievo in un sistema che oggi le riserva un inaspettato interesse. Il digitale poi, con i suoi dispositivi a uso democratico, è stato il generatore di senso di una nuova, felice stagione di ricerca nell’ambito della fotografia contemporanea che trova nell’ibridazione la sua ragione e nella decontestualizzazione – da documento a opera d’arte – la sua sopravvivenza. Il “deserto digitale” annunciato dal giornalista Michele Neri (direttore della storica agenzia fotogiornalistica Grazia Neri)
Luca Beatrice - nuova fotografia
Il fotografo è e resta un narratore, con la differenza che non è più sufficiente saper vedere per raccontare storie e che il mito romantico dello scatto perfetto sopravvive solo se aggiornato al presente.
nel saggio Photo Generation (ed. Gallucci, 2016) diventa il trampolino di lancio per tendenze che mischiano i generi della fotografia tradizionale con un uso disincantato del vernacolare, dell’amatoriale, includendo e valorizzando l’estetica dell’errore, del caso, del post-internet. Nulla si può di fronte all’evidenza dei fatti. La rivoluzione cominciata poco più di dieci anni fa con il lancio sul mercato di strumenti dalle prestazioni sofisticate e a uso semplificato, ha sovvertito il nostro rapporto con le immagini. Ciò nonostante, la fotografia non è morta. Almeno non tutta. È finita certo un’epoca che puntava sulla fotografia come documento, è iniziata una fase che invece la annovera a pieno titolo nel sistema culturale, critico e storico dell’arte contemporanea e dei visual studies.
Angelo Crespi - La scultura
Intendendo per scultura, come scriveva Michelangelo, “quella che si fa per forza del levare” mentre “quella che si fa per via di porre, è simile alla pittura” possiamo limitare il panorama artistico della scultura italiana dal Duemila a oggi, evitando tutte le opere plastiche al di fuori di questa felice dicotomia, tralasciando le nuove e vecchie avanguardie e le sperimentazioni, i ready made, gli object trouvé e quegli artisti concettuali che utilizzano la scultura pur non essendo, di fatto, scultori in senso tradizionale. Preferiamo invece soffermarci sulla schiatta di artisti che, “levando” o “ponendo” nel solco della tradizione soprattutto figurativa, producono opere risultato del talento, dell’applicazione, dell’intelligenza della mano. Una stirpe che discende, a seconda dei casi, dalla scultura etrusca o da quella romana, che si è abbeverata alle fonti medioevali, che ha esempi straordinari nel Rinascimento e nel Barocco, e avi prossimi in quel Novecento italiano tanto ricco di capostipiti (ognuno di una linea o di un modo o di una tecnica o di un materiale) principiato dall’ineguagliabile movimento di Boccioni, proseguito dalle solide pietre di Modigliani, fortificato prima nel marmo da Wildt e poi nel bronzo da Marino Marini, impreziosito dalle ceramiche di Lucio Fontana, e che ha, pur in tono minore, grandi esponenti come Martini, Manzù, Greco, Consagra, Agenore Fabbri, Pomodoro, o più solitari o defilati come Giuseppe Gorni e Carlo Bonomi nella figura, o più recenti Sangregorio e Ghinzani nell’astratto. Nell’ultimo ventennio, tra gli scultori del porre Giuseppe Bergomi è, per rilevanza, l’espressione massima di quella fiducia nella tradizione che si sublima in una costanza del gesto e del soggetto da farne un maestro. In questa linea, si pongono scultori diversi tra loro, ma di assoluto talento e di grande riconoscibilità, per esempio Ugo Riva, capace di rielaborare nella contemporaneità le forme del mito classico, e nello stesso solco mitografico Federico Severino, o di una generazione appena più giovane, Marco Cornini con le sue splendide donne in terracotta, archetipi di una personale ossessione, e scendendo anagraficamente Paolo Schmidlin, insuperato cantore del grottesco della contemporaneità pop, o l’altrettanto caustico Livio Scarpella. Quando il porre si esalta nella solidità del bronzo o del ferro, il più celebrato artista della sua generazione è Velasco Vitali, prima pittore, ma assoluto scultore di branchi di cani; mentre per stile il più internazionale nell’ultima decade è certamente Matteo Pugliese i cui corpi fuoriescono dalle pareti con una forza degna di Rodin e un afflato che ricorda Luca Signorelli. Più giacomettiane invece sono le esili figure di Alex Pinna, e legate al mondo etrusco quelle, altrettanto allungate, di Paolo Staccioli. Tra gli scultori del levare, Fabio Viale è riuscito a riportare in auge il marmo, sperimentandone tutte le inesplorate possibilità, tanto da farne un materiale super contemporary: i suoi busti classici tatuati alla maniera dei trapper, le sue madonne in finto polistirolo, gli pneumatici di un realismo assoluto sono la risposta migliore che la vera scultura può dare, da un lato, alle derive di tanto decantato iperrealismo pop (da Duane Hanson a Ron Mueck) e, dall’altro, all’enfasi di tanto celebrato concettuale pop (da Cattelan a Jeff Koons), in cui l’artista o assomiglia più a un buon produttore di effetti speciali, o direttamente appalta le
Io intendo scultura, quella che si fa per forza di levare: quella che si fa per via di porre, è simile alla pittura: basta, che venendo l’una e l’altra da una medesima intelligenza, cioè scultura e pittura, si può far fare loro una buona pace insieme, e lasciar tante dispute; perché vi va più tempo, che a far le figure.
Michelangelo Buonarroti
proprie opere a laboratori conto terzi. In ogni caso nella scia del levare, non possiamo dimenticare Elena Mutinelli, una scultrice di assoluto talento, un misto di grazia femminile e muscoli, certo più tradizionale di Viale ma capace comunque di trarre, al modo antico, dal marmo splendide forme di mani e corpi levigati. O al contrario, le figure lacerate che Christian Zucconi scolpisce nella pietra e riannoda a brani col filo di ferro. O il talento super contemporaneo del giovane Jago, un “artista social” come lui stesso ama definirsi, il cui busto spogliato di Ratzinger è ormai un classico della comunicazione virale. Avendo però sempre negli occhi, le splendide figure del siciliano Girolamo Ciulla, che è forse il più antico e moderno tra gli scultori italiani contemporanei, o le esili figurine in caolino del suo conterraneo, Dino Cunsolo. Ancora nell’ambito del levare, una generazione di intagliatori, soprattutto delle valli del Trentino Alto Adige, è stata invece capace di rifondare la tradizione della scultura del legno proiettandola nella più stretta contemporaneità con esiti straordinari: la visionaria sperimentazione e l’impegno materico di Aron Demetz, passato dai levigati kuros a figure sbozzate, ma di identica intensità; la felice giocosità dei Verginer, padre e figli; l’austera sacralità di Giorgio Conta; per arrivare al minimal concettuale, super flat, dei diorama di Peter Demetz. In ambito femminile e pensando a materiali meno nobili, si possono infine elencare i raffinati animali in papier mâché di Alice Zanin, le figure di tessuto di Florencia Martines, artista di origine argentina ma ormai naturalizzata italiana, le composizioni in vetro di Annalù, le aggregazioni cellulari in resina di Beatrice Gallori, e infine i calchi in gesso che accompagnano le performance di Tiziana Cera Rosco.
Philippe Daverio - Il paesaggismo
Fu Giotto di Bondone, mentre ad Assisi dipingeva i suoi affreschi, che esaltò da suo emulo i primi paesaggi della pittura italiana; lo fece in parallelo alla prima raffigurazione dei sentimenti degli esseri umani, ai dolori della vita e alle gioiose cantate dei frati. Da Francesco all’ Accademia dell’Arcadia, nata a Roma nel 1690 in mezzo gli amici della regina Cristina di Svezia, il passo è infatti assai breve; fra questi dotti romani dell’epoca barocca e il risveglio della successiva sensibilità romantica lo è ancor di più. Ma fu questo passo ancora una volta facilitato dall’aria che respirava la pittura, quella di Claude il lorenese ch’era andato a dipingere lì poco prima i misteri dei boschi laziali nelle giornate di scirocco. E non è affatto improbabile che questo enigmatico artista, approdato ragazzo a Roma come pasticcere, abbia combinato la sensualità del gusto con il senso della natura, meravigliato come doveva essere stato nel sentire un’atmosfera per lui così diversa e nuova. Chi scopre l’Italia scopre il paesaggio. Lo aveva percepito con uguale senso di sorpresa oltre un secolo prima l’Alberto Dürer, quando valicò le Alpi. Gli apparve una meraviglia inattesa, la stessa che colpirà secoli dopo Goethe che compie un viaggio analogo; appena giunge nell’aria del mediterraneo chiede alla sua futura Mignon “Ma lo conosci tu il paese dove fioriscono i limoni”. Goethe il tedesco conosceva l’Italia perché a casa sua s’era formato sulle lettere dell’antichità. Le Bucoliche latine di Virgilio gli erano naturali. E Virgilio questi versi campestri li aveva imparati dalla poesia greca che Teocrito aveva composto tre secoli prima nelle proprie elegie idilliache. In quanto al sommo Teocrito, era egli greco in tutti i sensi, ma greco nato a Siracusa nel 315 a.C. Ai greci di Grecia la natura interessava assai poco. La scoprirono quando dalle loro isole aride e dalla loro penisola bellicosa se ne andarono ad occidente per scoprire la libertà nei vasti orizzonti del nuovo mondo. E loro, gli orientali, si meravigliarono quanto si sarebbe meravigliati millenni dopo i settentrionali. Scoprivano come Ulisse i misteri dei boschi e degli anfratti, la magia inquietante del mare lontano, le gioie sensuali di cibi che sulle loro isole erano ignoti. Ma, testardi e determinati com’erano, non dipinsero paesaggi sui crateri e sulle Kylix. Perpetuavano una mitologia dove l’unico monte era l’Olimpo. Sicché Teocrito fu un vero innovatore e Virgilio lo lesse con tale passione da rimanerne profondamente influenzato. Il paesaggismo letterario era nato nei venti di Siracusa. L’aria in movimento è necessaria alla percezione del paesaggio. La scoprirono moto tempo dopo i veneti di campagna che andarono a spiegare a quelli della laguna che il vento non serviva solo a gonfiare le vele delle galee. Così nacque la prima pittura di paesaggio, quella di Cima da Conegliano, di Giorgione da Castelfranco, di Tiziano il cadorino, di Paolo il Veronese. Ed è lì che si convertì il settentrionale Dürer quando ne crepuscolo del Quattrocento andò a respirare lo scirocco adriatico. I preromantici francesi
Alors je rêverai des horizons bleuâtres, Des jardins, des jets d’eau pleurant dans les albâtres, Des baisers, des oiseaux chantant soir et matin, Et tout ce que l’Idylle a de plus enfantin.
Sognerò allora di orizzonti bluastri Di giardini, di getti d’acqua piangenti sugli alabastri Di baci, d’uccelli che cantano la sera e al mattino E di tutto ciò che l’idillio ha di più infantile.
Charles Baudelaire Les Fleurs du Mal
informati da Claude, i romantici tedeschi amici di Caspar David Friedrich se ne andarono a propagandare il paesaggismo in tutta Europa. Ma l’Italia continuava a proporre innovazioni; ogni viaggiatore ben fornito che approdava a Venezia si riportava a casa un paesaggio di Canaletto, di Bellotto o di Guardi e se era inglese d’origine lo appendeva nei saloni dove i suoi discendenti avrebbero posto pochi anni dopo un bosco di Constable o una marina di Turner. Il gusto per il paesaggio migrava. Ben prima che i pittori parigini scoprissero che giovava alla salute abbandonare l’aria chiusa dei loro studi per correre all’aria aperta e farsi impressionisti, i toscani avevano deciso che la macchia era luogo ideale per inventare la macchia di colore; la ricerca d’una sensibilità nuova veniva stimolata dal percorre le campagne estive e dal respirare l’aria marina di Castiglioncello. E poi gli impressionisti impressionarono gli ultimi discendenti del defunto regno delle due Sicilie, i Lojacono come i Pratella napoletani, il palermitano Antonio Leto come il catanese Emanuele Di Giovanni. Le avanguardie del XX secolo decisero che la pittura non poteva competere con la fotografia nel raffigurare il mondo della natura, e quando dipinsero i paesaggi urbani lo fecero con una certa timidezza mentre il cosmo bucolico di Virgilio de di Giotto non gli interessava punto. E ora che le avanguardie si sono collocate sugli scaffali della Storia, il paesaggismo irredento torna in scena, rivestito con abiti nuovi e pronto a testimoniare una rinata sensibilità per le complicate meraviglie del creato.
Sandro Serradifalco - Astrazione e informale
È esistito un tempo in cui Capuleti e Montecchi erano i figurativi e gli astrattisti. I primi rivendicavano lo scopo descrittivo di un’arte impegnata nella realtà sociale dell’epoca, i secondi la necessità di esprimersi attraversando lo stagno delle comuni convinzioni estetiche. Furono decenni incredibili in quanto alla dialettica pittorica di personaggi come Guttuso, Migneco e Fiume si contrapponeva la dirompente e irriverente sperimentazione di Consagra, Perilli e Dorazio. Un’autentica golden age riconducibile tra gli albori degli anni ’50 e gli inizi degli anni ’70. Un grande percorso la cui strada era lastricata da decine di nomi indimenticabili, contrastanti spesso tra loro. L’Italia è sempre stato paese di aspri derby. Coppi vs Bartali, Don Camillo vs Peppone e Realisti vs Formalisti. In tali dualismi, in apparenza espressione di provincialismo, si celavano complesse contrapposizioni storiche e ideologiche. Due modi non soltanto di intendere l’arte, lo sport e la politica, ma l’esistenza stessa. Riflesso di un’era permeata dal confronto continuo tra nero e rosso e tra est e ovest. C’era pure chi, forse non esagerando troppo, denunciava un chiaro tentativo di omologazione di massa. Sta di fatto che nella biennale di Venezia del 1964 la Pop Art dominò la scena. In quell’anno a Robert Rauschenberg andò il premio come miglior artista straniero e l’ago della bilancia della ricerca pittorica si spostò dall’Europa agli Stati Uniti, insieme all’attenzione di critica e mercato. I sostenitori della cultura a stelle e strisce videro il loro vittorioso e conclusivo traguardo nell’era di Reagan, dopo la paludosa traversata degli anni ’70, ma questa è un’al- tra storia. Tornando all’astrattismo il dato certo è che dal 1910, anno in cui Wassily Kandinsky eseguì. il primo quadro astratto, un acquerello conservato oggi al museo Georges Pompidou, l’arte non dovette più imitare la realtà. Senza vincoli, convinzioni e apparentemente senza regole. Sarà proprio Kandinsky a definire la grammatica e la sintassi del linguaggio visivo, con il saggio del 1926 “Punto, linea, superficie”, autentico punto di riferimento per le avanguardie del ‘900. Come dire libertà espressiva ma entro certi limiti.
Tu sei talmente brutto che sembri un’opera d’arte moderna!
Sergente Maggiore Hartman Full Metal Jacket (1987, Stanley Kubrick)
Da Kandinskij a Klee, fino a perdersi nelle geometrie di Mondrian, in pochi anni si assistette a una sbalorditiva evoluzione del comune senso estetico. Terreno fertile per la rivoluzione dei grandi della scuola di New York capeggiata da quel Jackson Pollock che inventò nel 1946 il dripping. Sgocciolamenti e spruzzi capaci di mutare tecniche pittoriche in uso da secoli. Così il caos divenne arte. Un caos di cui oggi, l’abuso, autorizza qualsiasi aspirante pittore a imbrattare una tela spacciandosi per astrattista, epilogo di uno scontro ideologico perso da alcuni e vinto da altri. Un caotico infinito fatto di poetici risvolti esistenziali nel quale alle volte mi smarrisco.
Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare(Giacomo Leopardi “L’Infinito”).
Vittorio Sgarbi - La figurazione
Un singolare paradosso inficia il modo più ricorrente di intendere l’arte contemporanea, se non il suo stesso concetto. Ricorderemo l’attuale momento della storia dell’umanità come quello che più di ogni altro ha scancito il trionfo della raffigurazione, in termini e quantità che non trovano alcun paragone nelle epoche precedenti. Nel passato pre-industriale, la raffigurazione era attività che godeva comunque di una certa diffusione, in virtù dello spontaneo bisogno dell’uomo di oggettivare le proprie impressioni del reale per riuscire a stabilire con esso una relazione ottimale, ma venendo prodotta da classi speciali di persone specializzate nel compito – i pittori, gli scultori, per esempio – in quanto detentrici di una determinata tecnica ad hoc. Poi é arrivata l’era industriale e con essa la scoperta di metodi automatizzati di raffigurazione – la fotografia, il cinema, la televisione, per dire solo di quelli visuali – che hanno progressivamente diminuito la necessità di dover essere dei tecnici specializzati in un certo campo, con la riproducibilità delle raffigurazioni che si é man mano incrementata, per usare il modello caro a Walter Benjamin, in parallelo alla nascita e allo sviluppo di un nuovo fenomeno sociale, la moderna cultura di massa. Nel nostro tempo il processo si é ulteriormente inoltrato, conducendo a conseguenze estreme rispetto ai precedenti prima evocati. L’affermazione della tecnologia informatica ha infatti portato non solo ad ampliare a dismisura la possibilità di raffigurare e di diffondere le immagini nella più universale rete comunicativa di cui mai si sia usufruito (Internet, naturalmente), ma a mettere queste facoltà a disposizione di qualunque essere umano indipendentemente dalle sue competenze specifiche. Basta che si munisca di apposito dispositivo, in particolare di un telefono cellulare con fotocamera, così come ha ormai fatto ben oltre la metà della popolazione mondiale, e ogni persona può immediatamente diventare un produttore di raffigurazioni in grado di realizzare un numero infinito di immagini, data l’estrema facilità d’uso conseguita dall’apparecchio, e di poterle fare vedere, una volta riversate nella rete comunicativa universale, anche nell’angolo più sperduto di questo mondo. Una rivoluzione, questa, che sta modificando profondamente le abitudini degli esseri umani, portandoli a fisiologizzare, per via della pratica continuata, talvolta compulsiva della rappresentazione, funzioni che una volta non rientravano di certo fra le loro mansioni più frequentate. Siamo diventati, nella stragrande maggioranza di noi, animali che quotidianamente non provvedono più solo a mangiare, bere, dormire, secondo conseutudini strettamente legate alla nostra sopravvivenza, ma anche a una di più evidente carattere culturale che in quanto tale non dovrebbe essere altrettanto indispensabile, e che invece viene svolta sistematicamente come se lo fosse: l’attività del raffigurare. Homo effingens, ecco la nuova specie che sta contraddistinguendo il principio del terzo millenio. Mai era successo che così tante persone potessero accedere a strumenti di comunicazione visuale in grado di generare espressività e quindi, almeno potenzialmente, anche arte, sebbene nel concreto ci é noto che le cose sono più complicate di come non potrebbero sembrare da quanto appena affermato (é arte non quanto viene semplicemente prodotto secondo determinate modalità, ma ciò che viene considerata tale, attraverso una valutazione che appartiene all’ambito delle opinioni, da altri che sono diversi da chi l’ha prodotta). Il paradosso, riprendendo finalmente la frase con cui si é introdotto questo testo, sta nel fatto che l’arte contemporanea, ovvero le opinioni dominanti, sostenute in gran parte da operatori del settore, che finiscono per connotare la sua idea corrente, si sta dimostrando ben poco contemporanea nel prendere atto del mutamento dei tempi per cui le pratiche della raffigurazione hanno acquisito un ruolo così importante nell’odierno costume sociale. Non che gli artisti che più tengono a considerarsi contemporanei rifiutino il confronto con gli strumenti e i modi della raffigurazione così come adottati nel suo complesso dall’homo effingens, di cui per certi versi hanno anche anticipato le tendenze (quanto dell’attuale narcisismo di massa espresso attraverso i “selfie” ricorda l’autobiografismo concettuale in forme di
performance sviluppato da tanti artisti à la page a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso?). È che lo fanno dall’alto di un’autoreferenzialità che li porta ancora a sentirsi dei rappresentatori privilegiati rispetto a un’umanità che nel frattempo, però, non sta più nella condizione che ha conosciuto fino al secolo scorso, ma é arrivata alla svolta epocale per cui ha conseguito l’accesso totale alla possibilità di esprimersi visualmente. La differenza la fanno i contenuti, dicono gli artisti, sono quelli – più prosaicamente, il loro riconoscimento da parte dei soliti operatori di settore – che di fatto stabiliscono l’artisticità di un’espressione piuttosto che un’altra. Basterà solo questo per distinguersi dal mare magnum della raffigurazione globale, o non si tratta di appigli troppo deboli che rischiano di isolare ulteriormente l’arte dal sistema universale della comunicazione, facendone una sorta di mondo fuori dal mondo? Il dubbio é molto forte. Eppure servirebbe poco a risolvere almeno parte della contradditorietà che certe posizioni si portano dentro. Basterebbe, per esempio, rinunciare all’ostracismo tardo-novecentesco che ha portato a bollare la figurazione artistica come sinonimo preconcetto di passatismo, riconoscendone invece la maggiore compatibilità “costituzionale”, per così dire, rispetto alle nuove istanze sollecitate dall’apparizione dell’homo effingens. Non si sta dicendo che la figurazione tornerebbe a diventare la più moderna espressione artistica solo perché la più capace a mimetizzarsi entro i termini della nuova raffigurazione globale. Al contrario, si sostiene che la sua modernità consista nella maggiore vocazione distintiva rispetto al mare magnum della rappresentazione indiscriminata, vocazione che confida non tanto sui contenuti che l’espressione trasmette, di per sé insufficienti anche quando particolarmente importanti nella sua economia, ma su un elemento di più palese constatazione che per questo risulta assai meno equivoco di essi: la radicale diversificazione nella tecnica produttiva. Raffigurare dipingendo o scolpendo finisce oggi per significare qualcosa di ben più notevole del semplice immettersi nel solco di una certa tradizione artigianale, come vorrebbe la più pigra semplificazione mentale. Significa rappresentare impiegando una materia espressiva di natura eminentemente fisica che intende recuperare, con ciò che raffigura, il rapporto di intregralità percettiva alla base della sua presa di coscienza, quasi che tutto ciò che c’é di corporeo, fosse riproducibile nel suo essere inteso come qualcosa di reale solo da altra sostanza corporea, per quanto diversa da esso. È proprio questa corporeità di mezzo e di fine a legittimare del tutto la pretesa della figurazione artistica di rifiutare l’omologazione nella virtualità incorporea di cui l’universo visuale dell’homo effingens é costituito. Un universo in cui vero e verosimile vanno confondendosi in un unicum senza precise soluzioni di continuità, sostenendo perciò un diverso concetto di rappresentazione rispetto a quello a cui esso fa capo. Lungi dall’essere mero esercizio di conseguita abilità di artificio, la tecnica raffigurativa per via “corporea” diventa così strumento necessario, e come tale altamente qualificante, per raggiungere uno scopo che é altro, ontologicamente distinto da quello perseguibile mediante le rappresentazioni di tipo incorporeo.
Edoardo Sylos Labini - Il futurismo
Sono entrato nella casa del Futurismo dalla porta principale vent’anni fa quando, per mettere in scena un mio spettacolo sul rivoluzionario Manifesto del 1909, bussai alla porta di Luce, terza figlia del fondatore del movimento futurista, Filippo Tommaso Marinetti. È stata lei all’inizio degli anni ‘70 dall’Università americana di Yale, dopo l’ostracismo subito nel dopoguerra da tutto quello che aveva avuto un legame col fascismo, a rilanciare il geniale lavoro fatto dal padre. Lei, la Luce del Futurismo ha dedicato la sua vita fino alla sua morte, avvenuta nel 2009 anno del centenario del primo manifesto, a far riscoprire in giro nel mondo questi straordinari artisti italiani che rivoluzionarono la visione dell’arte nei primi quaranta anni del ‘900. Nella sua casa sono rimasto affascinato dall’opera di Gerardo Dottori. La Famiglia Marinetti (1941), un ritratto che raffigura FT con la moglie Benedetta Cappa e le tre figlie, Ala, Vittoria e la piccola Luce ancora in fasce. In quest’opera di Dottori, che fu tra i firmatari dell’Aero- pittura, c’è la sintesi della lezione futurista: dinamismo, prospettiva, appartenenza. Il dinamismo inteso non solo come simultaneità del movimento, che Boccioni seppe per primo dipingere ne La città che sale (1910) – tela che ha influenzato tutta l’avanguardia del secolo scorso – ma inteso anche come velocità del pensiero che diventa azione. La prospettiva di vedere e raccontare il mondo da punti di vista inesplorati fino ad allora, dall’alto ma anche dal basso. Il senso di appartenere ad
Bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sfarzo e munificenza, per aumentare l’entusiastico fervore degli elementi primordiali.
Filippo Tommasi Marinetti “Le Futurisme”, 1909
una grande famiglia di artisti che si uniscono e promuovono l’italianità in nuovo concetto di Arte/Vita. Per questo credo che parlare di Futurismo oggi sia più che mai attuale. Per questo sette anni fa ho chiamato mia figlia Luce. Un auspicio: perchè su tutti quanti noi artisti splenda per sempre, negli occhi, il raggio della creatività.